Non proprio un addio…

Daniele Vazorni, detto Lillo. Lo hanno trovato morto al boschetto di Rogoredo, Milano, Italia. Una morte in terra di nessuno, al confine tra degrado, ipocrisia e opportunismo.

Ci sono fatti contro cui sbatti ogni giorno e vai oltre; li leggi su una pagina di giornale, “ti costerni, t’indigni, t’impegni – poi getti la spugna con gran dignità“. E ci sono fatti che vengono a bussare alla tua porta, chiedono udienza, prenotano una stanza e ipotecano il tuo tempo.

Daniele Vazorni (non lo chiamo Lillo, non eravamo certo in confidenza, lo conoscevo per averlo incontrato a una qualche riunione) è venuto a bussare qualche giorno fa e da allora sta lì seduto, nella poltrona in sala, o nella piazza centrale di San Giuliano, e non pare così disposto ad andare via, a cedere il posto alla gravità di qualche altro accadimento. E ha ragione, Daniele, perché merita di riposare in pace, dopo aver tanto faticato per provare a vivere, in pace. Ma non è facile riposare se le etichette che ti cuciono addosso non ti lasciano andare, se i pregiudizi ti inseguono anche da morto.

Vedi, Daniele, io non so se quello che è accaduto ha una spiegazione, se mai riusciremo a ricostruire le ragioni che ti hanno portato a morire lì, in quella terra di nessuno al confine tra degrado, ipocrisia e opportunismo. Non so neppure se a me interessi davvero tanto entrare così in intimità con la tua vita, con la tua storia, ora che il destino è compiuto, e visto che il caso e le vicende degli umani non mi hanno concesso di farlo prima, quando tutto era lecito e possibile. Mi interessa ricordare invece che te ne sei andato a trent’anni o poco più, mi interessa sapere che eri una persona vitale, che meritava di vivere, che sapeva vivere in quel modo incasinato e difficile di chi pratica le proprie idee con passione, e si dedica agli altri senza troppa attenzione al personale.

Non eri unico e non eri santo. Eri, e adesso non sei più; o almeno non più sicuramente quello che eri prima. Te ne stai lì seduto sulla poltrona con una birra (immagino io) in mano, e aspetti, perché ora la palla passa a noi e non potrebbe essere diversamente. Sta a noi ricostruire la nostra dignità chiedendo verità sulla tua vicenda, su quel corpo che hai lasciato là, nel boschetto, disponibile a qualunque onta, a qualunque vituperio.

Lo faremo, è una promessa per noi, prima che per te. Per noi perché se qualcosa il tuo bussare ci obbliga a fare è tornare con la memora a tutti i volti, a tutti gli inferni di solitudine, a tutte le omologazioni coatte di questi anni e capire finalmente che dietro a ogni vita, ogni fine, dietro ogni donna e ogni uomo, ci sono storie e percorsi che vanno conosciuti quando possibile, e rispettati sempre, prima di potersi permettere non di giudicare ma anche solo esprimersi sulle vite altrui. Perché non glissare su di te è un esercizio per restare umani, non scordarsi di noi, di tutto il resto.

E allora per il momento resta lì, non andartene, prendi un’altra birra e abbi pazienza dei tempi nostri. Il tempo, almeno quello, a te non manca.

“…un sasso, una foglia, una porta nascosta; di un sasso, una foglia, una porta. E di tutti i volti dimenticati.

Nudi e soli siamo venuti in esilio. Nel suo oscuro grembo non conoscemmo il volto di nostra madre, dalla prigione della sua carne siamo giunti all’indescrivibile, indicibile prigione di questa terra.

Chi di noi ha conosciuto il fratello? Chi ha guardato nel cuore del padre? Chi non è rimasto per sempre prigioniero? Chi non è per sempre solo e straniero?

O immane desolazione, persi nei torridi labirinti, tra le stelle lucenti su questo tizzone esausto e spento, persi! Muti cerchiamo la grande lingua dimenticata, la strada perduta per il cielo, un sasso, una foglia, una porta nascosta. Dove? Quando?

Perduto spirito, pianto dal vento, torna ancora.”

Thomas Wolfe, “O lost


Sabato 27 luglio

I contributi dal vivo e un contributo, di Daniele, dal vivo. Scritto nel 2017 e letto da Simona.

Mi piacciono le virgole non i punti.

Non mi piacciono le parentesi, le parentesi hanno il brutto vizio di rinchiudere.
Le virgolette mi piacciono, le virgolette vogliono sempre spiegare.

Non mi piacciono i punti, li uso il meno possibile.
Se sono costretto però prediligo il punto a capo.
Questo particolare tipo di punto aiuta a ripartire.
Se sono costretto uso il punto a capo.

Oggi è un giorno da punto.
Un giorno triste, un giorno che segna la fine di una frase o ancor peggio di un periodo.
Oggi è un giorno da punto a capo.
Un giorno triste ma che vuole ripartire.
Ed allora riparto, riparto da subito.
Il punto non torna indietro, non lascia spazio all’interpretazione, non è una virgola che si prende una pausa.
È un punto, lui non lascia niente in sospeso.

Non mi piacciono le parentesi, preferisco le virgolette.
Ma oggi è un giorno triste, non c’è ormai più nulla da spiegare.
Oggi è un giorno da parentesi, un giorno da parentesi graffe, le parentesi graffe in matematica contengono tutte le altre parentesi, le usi quando non resta più nulla da contenere.

E allora punto.
Punto a capo.
Parentesi tonda, quadra, graffa.

Stasera si va a ballare.

L’Omelia di Roberto Buzzi
Don Carlo Tradati
Martina
Simona
Pierpaolo

About Author

1 thought on “Non proprio un addio…

  1. Grazie per queste parole, io no conoscevo Daniele, ma in ciò che scrivi mi ci ritrovo molto. Meravigliosa la poesia finale di Thomas Wolfe.
    Sonia

Comments are closed.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: