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Quel fumo nero che acceca la coscienza

Il fumo che sale da quell’autobus incendiato rappresenta molto di più della testimonianza di una tragedia questa volta e per fortuna scampata.

Oggi, su quel fumo, si proiettano due film diversi:  il primo dice “ecco i frutti dell’accoglienza buonista”, il secondo “a furia di soffiare sul fuoco il fuoco brucia”. Dovessi scegliere, preferirei indubbiamente il secondo.

Però non voglio scegliere perché voglio mantenere la mia libertà di giudicare i fatti senza etichettarli, di prendere posizione senza entrare in un contenitore. E i fatti sono semplici: in ogni realtà, in ogni comunità, ci sono persone più o meno degne, più o meno intelligenti, più o meno fragili. Con questi elementi di difficoltà una comunità può fare i conti restringendo il perimetro del disagio e dotandosi di strumenti di contrasto efficaci anche, ma non solo, repressivi.

Fornire risposte generiche, usare fatti come questo per pretendere di individuare responsabilità collettive, per trasferire valutazioni valoriali a un’etnia, a un gruppo sociale, a un contenitore, vuol dire costruire una distanza per impedirci di guardare il nostro vicino  per quello che è, o almeno per quel che a noi pare che sia.

Quando le matite sono in una scatola noi possiamo dire “bella la scatola” oppure “brutta la scatola” ma non possiamo vedere il colore delle matite nella scatola.

Allo stesso modo affibbiare una “categoria” alle persone ci impedisce di valutarle per quello che sono. Non solo: è anche il primo passo per far sì che se qualcuno decide che non ci servono più matite si possa prendere la scatola e semplicemente buttarla via, indipendentemente dalla bellezza e dalla varietà dei colori delle matite.

Non è un paragone forzato: è il meccanismo necessario a far sì che cittadini più o meno sani, intelligenti e consapevoli possano prendere cittadini altrettanto sani, intelligenti e consapevoli per inviarli in un campo di sterminio o in un lager nel deserto, li possano sfruttare, violentare, uccidere. E questo meccanismo, come una tragica matrioska, serve in definitiva a distogliere l’attenzione da un punto fondamentale: chi e perché decide che quella scatola non serve più, che ci siano matite “sacrificabili” in virtù di una qualche ragione superiore.

Ora torniamo al nostro fumo iniziale, alle fiamme che escono da quel pullman incendiato sulla Paullese. Ecco, io vorrei sentirmi libero di dire che l’autore di quel gesto è un pazzo criminale senza usare due pesi e due misure; senza preoccuparmi del fatto che ogni volta che un Ousseynou Sy compie un atto del genere è un terrorista ma se lo fa un Traini è un povero disadattato. Senza dover specificare ogni volta la nazionalità del pazzo criminale di turno (nei due casi entrambi italiani).

Io voglio essere libero di valutare un gesto per ciò che significa e non per la convenienza di chi lo commenta.

Vorrei che fossimo, tutti, liberi di affermare che salvare vite non è la stessa cosa che respingerle nella disperazione. Vorrei poter dire che ognuno preferisce stare a casa sua e che se vuole andarsene deve essere per scelta e non per costrizione. E che questo vale per chi immigra come per chi emigra dal nostro Paese.

Vorrei, ma il fumo nero si alza e per dissiparlo ci vogliono molte persone e molte volontà.

Qui l’articolo di milanotoday

Qui l’articolo de Il Cittadino

A corredo un contributo dell’ottimo Alfredo Somoza

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